Le famiglie si interrogano sull’opportunità di mandare il proprio figlio al Nido, e quali siano i tempi giusti per affrontare l’inserimento.
Nel numero di giugno 2018 della rivista scientifica “Medico e Bambino” viene affrontato questo argomento, con lo scopo di fornire strumenti conoscitivi agli operatori sanitari, ai quali si rivolgono i genitori per un parere in proposito. Raccolgo alcuni spunti da questo articolo.
Si parte dal presupposto di offrire servizi educativi di qualità nelle primissime epoche della vita, che comportino un’ adeguata promozione dello sviluppo psicomotorio e relazionale, che servano a combattere la povertà educativa, a contrastare le diseguaglianze.
Importante è anche il fatto che la frequenza al Nido permette alle madri di avviare o più spesso mantenere un’attività lavorativa (extradomestica).
La povertà educativa viene definita come impossibilità di “apprendere, sperimentare, sviluppare e far fiorire liberamente capacità, talenti e aspirazioni”: si sottolinea il fatto che non coincide con la povertà economica, anche se spesso le due cose coesistono influenzandosi reciprocamente.
La povertà educativa produce a lungo termine effetti sulle competenze cognitive, affettive e sociali dei bambini: certamente si struttura nella famiglia e nell’ambiente di appartenenza, che influenzano in modo importante la costruzione di tutte queste competenze neurobiologiche, quando le capacità di apprendimento sono elevatissime, come non lo saranno mai più negli anni della nostra vita, in virtù dell’alta plasticità del cervello; ai genitori spesso mi capita di dire che il figlio nei primi due-tre anni di vita è come una carta assorbente, ha una facoltà di recepire dall’ambiente un’enorme quantità di stimoli, di elaborarli, facendoli propri, di costruire comportamenti sociali di adattamento in rapporto alla qualità delle relazioni offerte.
Viene riportato da più parti nella letteratura che le madri con elevato grado di istruzione sono in grado di favoriremaggiori performances scolastiche nei loro figli rispetto a genitori meno istruiti. Questo aspetto tuttavia non spiega i risultati che si ottengono nel percorso evolutivo del bambino: un valore fondamentale per un adeguato sviluppo psicorelazionale e cognitivo è determinato dalla qualità del tempo che i genitori passano con i figli.
Ormai questo concetto è largamente risaputo, e sostenuto da diversi studi: il tempo materno trascorso in attività culturali (fare i compiti, leggere insieme…) e attività anche non di studio ma che coinvolgono attivamente il figlio producono benefici sia a livello di sviluppo cognitivo che comportamentale, in confronto a “tempi materni” trascorsi senza coinvolgimento attivo e/o senza scambi verbali, come quando si piazzano i bambini davanti alla televisione; e questo indipendentemente dal livello di istruzione della madre.
Le madri lavoratrici compensano il minor tempo trascorso con i figli incrementando l’interazione con essi; una ulteriore compensazione è offerta dalla maggiore partecipazione all’accudimento e alla educazione dei figli da parte dei padri, che nella nostra cultura si dimostrano sempre più attivamente coinvolti nella gestione pratica quotidiana .
E i nonni?
In Italia è elevato (circa il 30%) il numero dei nonni che accudiscono quotidianamente i nipoti, molto maggiore rispetto agli altri stati europei. In generale si può dire che i bambini gestiti prevalentemente dai nonni (e dai genitori) dimostrano migliori abilità nel linguaggio ma minori capacità di cavarsela da soli nella soluzione di problemi (problem solving), rispetto ai bambini che frequentano un Nido. Comunque anche in questo caso i risultati sono in parte condizionati da variabili socio-economiche.
Quindi personalmente consiglio il Nido nella maggior parte dei casi, soprattutto quando il figlio è unico e c’è scarsa possibilità di interazione con i coetanei; un positivo confrontarsi con l’ambiente del Nido è utile anche ai genitori, talora inconsapevoli sia della necessità delle regole in termini educativi che delle specifiche stimolazioni volte a promuovere le capacità di apprendimento del figlio, accudito con modalità iperprotettive.
Questi ultimi aspetti sono da valutare soprattutto in caso di ricovero ospedaliero neonatale o nei primi mesi di vita, per una nascita prematura, o per altri problemi di adattamento neonatale. In questi casi le preoccupazioni dei genitori per la salute del figlio sono fonte di ansia e conducono all’iperprotezione, di per sè scarsamente incoraggiante la crescita delle iniziative di gioco e il raggiungimento dell’autonomia nel bambino.
La maggiore frequenza di malattie infettive nei primi mesi di frequenza ha indotto molti pediatri a scoraggiare l’ingresso al Nido prima dei 10-12 mesi: alla fine del primo anno di vita il sistema immunitario è più maturo e forte. Occorre dire peraltro che la frequenza delle infezioni nei bambini introdotti precocemente al nido negli anni successivi diminuisce fino a diventare minore rispetto ai bambini che sono rimasti a casa.
Il fattore “infezioni” deve essere bilanciato, e valutato con il proprio medico curante, tenendo conto del fatto che un’anticipazione all’ingresso può essere di beneficio per un adeguato sviluppo psicomotorio anche in termini relazionali, nelle situazioni di famiglie socialmente isolate o comunque in difficoltà.
Dr.ssa Valeria Chiandotto